In un’epoca allucinata e inquietante, la città di B. è messa a ferro e fuoco dalla forza pubblica: arresti, incendi, censure, sgomberi. I decreti dettano l’abolizione di qualsiasi espressione artistica e ordinano la distruzione di tutti i testi. «L’altissima e rispettabilissima Legge Pubblica vieta a tutti i civili di uscire dalle proprie abitazioni a partire dalle ore diciotto e la sosta permanente nelle piazze e nelle strade della città. I ragazzi e le ragazze con un’età compresa dai zero ai trentacinque anni sono obbligati a risiedere nelle scuole di massima istruzione e a memorizzare per intero i libri di testo proposti dal Partito Ufficiale. La fanteria, i reggimenti di artiglieria e i carri armati sono obbligati a eliminare analfabeti, semi-analfabeti, poveri, anziani, scrittori e qualsiasi figura mostri un comportamento ostile nei confronti del Partito Ufficiale. Pattuglie in assetto militare hanno il compito di sorvegliare tutte le vie cittadine, fare irruzione nelle abitazioni, arrestare o eliminare un individuo sospetto o colpevole di danneggiare la cosa pubblica.» Manifesti e volantini ricoprono le pareti della città di B. e riportano una parola e due lettere in grassetto e in maiuscolo: VIVA UI.
Due anziani, un uomo e una donna, portano sul corpo i segni del tempo e delle persecuzioni, della loro catastrofe privata. Li vediamo attraversare l’intera città a piedi con i loro animali e oltrepassare poi le mura fino ad arrivare in un vecchio teatro abbandonato. Si muovono cautamente e silenziosi come meduse, hanno dei corpi flaccidi e pieni di rughe e le loro membra emanano una tensione violenta e incommensurabile al contrario delle loro voci fioche, rotte e poco squillanti. Chi sono i loro animali? Dove sono i loro animali? Noi non riusciamo a distinguerli. Forzano i lucchetti dei cancelli dello spazio, spalancano porte e finestre per fare entrare l’aria pulita e si preparano in vista dell’arrivo del pubblico e del loro spettacolo da rappresentare. Nessuno andrà ad assistere al loro dramma perché nessuno abita più la città: la platea del teatro è destinata a rimanere vuota e l’intera sala e il palco saranno illuminati da fredde luci al neon. Vi starete chiedendo perché la forza pubblica tarda ad arrivare. Perché lo Stato non va a difendere lo stato in essere? Che cosa aspetta? Le prime sirene cominciano a suonare e alcuni militari si dirigono proprio in quella zona. Intanto sul palco, dietro le quinte, i due anziani si tengono mano nella mano, pronti a fare il loro ingresso sulla scena. Silenzio. La città di B., assediata e isolata, e quel teatro solo per quel breve attimo di silenzio che darà il via al dramma rappresentato, quasi coincidono e si intrecciano l’una con l’altro.
Adesso lo vedi quell’anziano signore con la barba bianca correre attorno alla figura della sua amata sposa posta al centro della scena? Le corre attorno come un forsennato, compiendo un giro circolare e ha tutte le membra macchiate di rosso, dello stesso colore che scaturirà dal suo corpo non appena i militari faranno irruzione nel teatro e lo uccideranno. Lei porta un libro con sé e dopo alcuni minuti comincia a leggere un vecchio racconto, dal titolo La tana. È la storia di una creatura metà umana e metà animale che costruisce un complesso sistema di cunicoli e corridoi per la propria abitazione, nella quale vivrà per il resto dei suoi giorni isolato dal mondo. Egli vive inquieto per l’imminente e presunto arrivo di un nemico.

«C’era…c’era…una una…volta.» Le pagine del racconto sono ripercorse dall’anziana maldestramente su quel palco, con una voce rauca, impacciata, confusa ed esitante. L’ascoltatore pende dalle sue labbra e la sua voce nasconde un segreto e il suo parlare è simile a un mormorio seducente e poi a un fremito. Non sappiamo nulla di quel racconto, della disfatta privata di quell’uomo mezzo animale e mezzo uomo. Ci toccherà ascoltare. Intanto alcune pattuglie tentano di fare un’irruzione nel teatro, fermare quella rappresentazione, tanto stupida e sterile. Ma come? La recita deve ancora finire. Adesso l’anziana ha finito di leggere quel racconto e si cosparge le membra di colore rosso. È lo stesso colore che scaturirà dal suo corpo non appena i militari faranno irruzione nel teatro e la uccideranno. È un colore acido e gelido e sui corpi dei due protagonisti crea, insieme alle rughe, delle crepe nette e friabili. Chi sono quei due? Finalmente i militari prorompono sulla platea e vogliono sparare senza riserve sugli anziani. Chi sono quei due? Ancora prima degli spari quei due sul palco ci appaiono come degli appestati, dei miserabili, degli esclusi, dei peccatori o degli assediati. Con tutto quell’inchiostro rosso con cui hanno rivestito la loro pelle sembrano già dei cadaveri. Le armi prendono la mira per segnare la fine di questa messa in scena. Dal palco si avvertono dei rantoli provenienti dalla voce della donna e poi distinguiamo l’anziano con la barba indicare un punto indefinito dello spazio e subito dopo la sua voce: «Quella, la vedi quella? Viviamo in una città che ti addormenta.» Subito dopo soltanto spari e il silenzio di quella platea, costituita da spettatori già morti e militari assetati e illuminata ancora con quelle brutte e industriali luci al neon penzolanti dal soffitto. Fuori il silenzio della città di B.
Dovevo raccontare uno spettacolo, visto qualche settimana fa a teatro, e ne ho immaginato un altro. Ho immaginato un’altra narrazione, differente da quella elaborata dalla compagnia Kepler-452 per il loro ultimo lavoro Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso presentato all’Arena del Sole di Bologna lo scorso marzo. Credo che il teatro, una tra le arti in grado di costituire un tentativo di volo verso universi lontani, sfocati e oscuri, debba allontanarsi dal reale, compiere un giro largo e lungo attorno ai contenuti che vuole portare sulla scena, adoperare perfino dei meccanismi truccati e alterati sulla scena e sviluppare una meditazione allargata e mai conciliatoria con il nostro tempo. Forse soltanto in questo modo la narrazione si rivelerà quanto mai vicina e stretta a quella reale. In questo articolo sono andato fuori tema, ma mi sembra che ci sia un’altra terra vicino alla nostra dove le cose sono più o meno simili a quelle che accadono qui. Solo che bisognava andare un po’ fuori strada per scorgerla.

Damiano Pellegrino