«Io il mondo voglio vederlo dall’alto». “Lingua di cane” e gli invisibili che abitano il mare

Un asse di legno oscilla lentamente sul palco. Vestiti e camicie legati a un telo si sollevano da terra a formare una vela. Sei attori scendono in sala e di spalle, di fronte al proscenio, si fanno eco e portavoce degli applausi degli spettatori. Nella muta commozione gli occhi di tutti sono puntati su quella nave di stracci che, sola sulla scena, sembra davvero cavalcare le onde.
A Enna, città siciliana costruita sull’ampia dorsale montuosa dei monti Erei, capoluogo più alto d’Italia, è nato uno spettacolo che parla del mare. A quindici anni dalla vittoria del Premio Scenario 2003 con Come campi di arare, Giuseppe Cutino (regia) e Sabrina Petyx (drammaturgia) della compagnia M’Arte tornano a parlare di migrazione e confini, di viaggi e speranza, di vita e di morte. Lingua di cane nasce da un laboratorio tenuto a Enna da Franz Cantalupo e coordinato da Filippa Ilardo della Compagnia dell’Arpa, da cui si è formato un cast di sei attori ennesi: Franz Cantalupo ed Elisa Di Dio, insieme con i giovani Sara D’Angelo, Noa Di Venti, Mauro Lamantia e Rocco Rizzo. A Bologna lo spettacolo è stato presentato sabato 10 marzo al Teatro ITC di San Lazzaro di Savena nell’ambito della rassegna Interscenario 6.
Senza retorica e senza pietismo, in una struttura drammaturgica costruita attorno a sei monologhi e altrettanti momenti di pura espressione corporea, vediamo raccontate la vita, le speranze, i sogni di sei migranti e il loro infrangersi contro le onde del mare. Ammirevole l’utilizzo del dialetto siciliano, testimonianza di un lavoro di scavo nelle proprie radici: Cutino e Petyx decidono di non “imitare” i migranti di oggi, estrapolando alcuni eventi biografici particolarmente tragici per commuovere facilmente il pubblico, ma piuttosto vogliono partire da ciò che conoscono, dai propri antenati, dai siciliani che dalla Sicilia scappavano per trovare una vita migliore in America. Sono i migranti di ieri e di oggi, sospesi tra vita e morte, intrappolati in un luogo e in un tempo indefiniti su un mare di vestiti abbandonati sulla scena, testimonianza di chi è venuto prima di loro e presagio di chi verrà dopo. E in questo modo si costruisce un ponte tra il passato il presente, tra il “noi” e il “loro”, nell’amara consapevolezza che la morte è un’esperienza umana e ci riguarda tutti.
Valeria Venturelli