Frammenti di storie e identità nel Tessuto di Cascina Barà

Domenica 19 marzo ho preso l’autobus dal centro di Bologna per andare fino al cuore dello storico quartiere Navile di Bologna, al MET (Meticceria Extrartistica Trasversale) in via Massimo Gorki 6. Uno spazio tutto nuovo, «una creatura culturale di terzo tipo», così la chiama Pietro Floridia di Cantieri Meticci.
Una volta arrivata vicino, mi sono smarrita in un paesaggio urbano deserto, un paese straniero per chi non conosce e non abita la periferia e ho vagabondato a lungo, senza mai incontrare nessuno, leggendo la segnaletica di luoghi chiusi (bar, teatro, palestra, punto informazioni) e affidandomi all’istinto. Un paio di persone che aspettavano al capolinea degli autobus non sapevano orientarmi, neppure i ragazzi con le biciclette che passavano da lì.
Bisognava solamente sapere che l’entrata era la stessa del supermercato Coop e tutto sarebbe diventato più semplice.
A darmi il benvenuto sono stati quattro bambini, «siamo i figli degli attori» hanno detto e mi hanno accompagnata ridendo. Finalmente ero seduta, in salvo. In sala un odore di plastica bruciata. Un pubblico di etnie mescolato sono il valore di questa casa artistica e della visione culturale che alimenta. Un luogo “meticciato” – fra arti e fra persone – la sua cifra distintiva.
Buio. La scena si satura di sensazioni e di poesia, per poi trascinare con modalità espressive diverse gli spettatori in un abisso di ombre e poi di nuovo su in alto verso immagini poetiche sfuggenti.
Al centro di #Tessuto l’esclusione dello straniero, la ricerca dell’identità, lo scontro intergenerazionale. Un esperimento teatrale creato dal Collettivo Cascina Barà, originario della campagna pisana. Un monologo spurio in cui la voce e il corpo di Daniela Scarpari, unica attrice in scena, dialogano costantemente con il diario di un tessuto scritto da lei e da Alessandra De Luca (Aledelu Letra), la scenografia, il videodisegno di Alessio Trillini e la musica di Lorenzo Grisha Declic. Tutto rigorosamente dal vivo. Si legge nella presentazione della trama:
«Teresinha è un’immigrata che lavorava in Italia come sarta, scomparsa misteriosamente. Fin da piccola collezionava parole, stava costruendo un diario-patchwork. Mia, sua figlia, ha affrontato un luongo viaggio per cercarla. Un viaggio in cui si è persa ed ha scoperto se stessa, ma ancora non conosce a fondo le sue origini, ha bisogno di costruire un nesso fra la persona che è ed il suo passato. Mia racconta la storia di sua madre dal momento in cui ritrova il diario di tessuto all’arrivo in casa sua, ma la casa è vuota. L’assenza di sua madre continua ad essere una specie di persecuzione ineluttabile. Leggendo il diario scopre parti di se stessa ed inizia a conoscere più a fondo la storia di questa donna che non ha mai potuto occuparsi di lei: la durezza della sua vita, la fuga, la violenza, la miseria. La sarta operaia è sempre vissuta in clandestinità, incastrata in un mondo sospeso, che non si trova né nella sua patria d’origine né in quella che la accoglie per lavoro. Il patchwork è incompleto e Mia decide di finirlo, ma si punge con un ago e inizia a dissanguarsi, prova a fermare l’emorragia ma non ci riesce come per un lento, malvagio incantesimo. Le manca una parola, le manca uno scopo, le manca sua madre. Dovrà prendere delle decisioni…»
Immagini e visioni di una ragazza in cerca di sua madre in un paese straniero. Un tipo di teatro sociale che indaga due ordini di conflitti contemporanei: l’esclusione dello straniero che trova la sua deriva nell’annientamento dell’individualità e l’impossibilità di comprendere in pieno il punto di vista dell’altro all’interno di un rapporto intergenerazionale, in specifico quello tra madre e figlia.
«Questo esperimento è frutto dell’incontro di persone dedite ad attività artistiche diverse e con background differenti, che hanno lavorato alla sua realizzazione come trovandosi in uno spazio pubblico astratto, poroso, privo di confini e di restrizioni categoriche. Un lavoro lungo, fatto di presenze e distanze che hanno permesso ad ognuno meditazione e maturazione delle singole scelte, sia organizzative che estetiche. Ciò ha dato vita ad uno sconfinamento, laddove possibile, l’uno nel campo dell’altro per dare maggior forza e fluidità al risultato. Ne nasce una regia collettiva, un lavoro corale sul testo, un Collettivo che ha sede nello spazio ideale della Cascina Barà, una specie di isola che c’è e non c’è».
Questo leggo nella presentazione e poi una volta riaccese le luci e aperta la porta faccio conoscenza con il musicista Lorenzo Declic (che è uno dei massimi esperti di mondo islamico contemporaneo, traduttore dall’arabo e collaboratore di Limes e di Internazionale) e Daniela Zambon Scarpari, l’attrice, l’ideatrice del progetto e co-scrittrice del testo multipremiato #Tessuto. E con tanta naturalezza riprendo col cellulare ancora parole, fili, tempi, spazi, storie; tessuti affini di noi persone simili nel viaggio della vita.
Ifigenia Faye Kanarà