Fra commedia e dramma. Il Casellante di Ovadia

Il Casellante, celebre romanzo di Camilleri, è stato messo in scena al Teatro Arena del Sole dal regista Giuseppe Dipasquale, con la grande performance di Moni Ovadia che interpreta ben cinque ruoli, oltre a quello di narratore esterno. La storia si svolge a Vigata, immaginario paese siciliano, e ha come protagonisti una giovane coppia, il Casellante Nino (Mario Incudine) e sua moglie Minica (Valeria Contadino).
La narrazione si divide in due atti molto diversi fra loro: nel primo l’atmosfera che si respira è quella della Sicilia degli anni ’40, connotata dal “fantadialetto” camilleriano, dai canti folcloristi intonati da Nino e Totò (Antonio Vasta) – bravissimi suonatori di mandolino e chitarra – e da quelle leggi ataviche che ci mettono di fronte una regione ancestrale, lontana anni luce dal continente. Questa prima parte è curata minuziosamente, i tempi sono dilatati, tanto che viene dato ampio spazio alle musiche suonate nella bottega del Barbiere (uno dei tanti personaggi interpretati da Ovadia). La trama, però, segue un climax drammatico che si riflette nella velocizzazione della narrazione: se la tanto attesa gravidanza di Minica era il tema ricorrente del primo atto, nel secondo la situazione si capovolge; infatti Minica, in una notte in cui Nino viene arrestato, subisce una violenza che le fa perdere il bambino e la renderà sterile. Da questo punto in poi la storia individuale capitola insieme alla catastrofe in atto della Seconda Guerra Mondiale: Nino si vendica brutalmente dell’uomo che ha condannato sua moglie alla follia, e lo fa nel modo più atroce di tutti. Questa giustizia personale ci porta in un mondo ancestrale, in cui vige un codice d’onore che sembra esistere da sempre. La cruda scena della vendetta, infatti, non può non ricordare il finale della novella di Verga Jeli il Pastore, in cui il protagonista si vendica del disonore subito: «Gli tagliò la gola di un sol colpo, proprio come un capretto». E i riferimenti letterari non finiscono qui: nel finale assistiamo alla metamorfosi di Minica in albero, reinterpretando il mito di Apollo e Dafne in una chiave completamente diversa. Nell’episodio ovidiano Dafne si trasforma in alloro per fuggire le insidie amorose di Apollo; al contrario, nella sua follia, Minica vorrebbe mutare la sua forma per procreare, in qualche modo, dei nuovi “frutti”.
Nel finale il piano storico e individuale si scontrano per poi riappacificarsi: un bombardamento causa un incidente sulla ferrovia e tra le macerie Nino trova un bambino scampato alla morte. L’esplosione, di per sé drammatica, alla fine porta nuova speranza: la tragedia della Guerra da a Minica e Nino un nuovo figlio, il “frutto” che l’albero sterile aveva desiderato.
Nel complesso la performance funziona: gli attori fanno propria la koinè siciliana di Camilleri e le musiche sono perfettamente inserite nelle parti recitate. Nel Casellante, insomma, ci sono tutti gli ingredienti capaci di far ridere e commuovere; l’interpretazione finale di Minica ci mette di fronte ad un dramma che non può non coinvolgere lo spettatore che, per tutto il primo atto, ha avuto il riso stampato sul volto grazie alla simpatia di Nino e Totò.
Gisella Governi