Prima e dopo la guerra. In Sicilia con il casellante di Moni Ovadia

Vigata. Il celeberrimo paese inventato da Andrea Camilleri come sfondo alle indagini del commissario Montalbano (e non solo) è arrivato a Bologna. Sul palcoscenico dell’Arena del Sole, da giovedì 9 a domenica 12 febbraio, abbiamo visto però un paese di metà ‘900 che, sotto la regia di Giuseppe Dipasquale, faceva da cornice alla messa in scena de Il Casellante. Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore empedoclino, collocandosi tra Maruzza Musumeci e Il Sonaglio è il secondo atto della trilogia dei romanzi fantastici e narra la storia di Nino Zarcuto, interpretato da Mario Incudine, e della moglie Minica Olivieri (Valeria Contadino), affidandosi alla narrazione in scena del factotum (barbiere, casellante, mamanna, gerarca fascista, narratore) Moni Ovadia. Lo spettacolo, intriso di musiche, è diviso in due parti contrapposte, stratagemma che oltre ad aiutare nel seguire le vicende dei protagonisti risulta utile nel rappresentare quel momento di passaggio che c’è tra il prima e il dopo l’arrivo di una guerra.
Nella prima parte l’atmosfera è più allegra e scanzonata, la guerra ancora non è arrivata a Vigata, le musiche di Mario Incudine e Antonio Vasta ci accompagnano insieme a Moni Ovadia – una sorta di “Camilleri in scena” – in un viaggio immaginario dentro alla Sicilia. L’Italia fascista da poco entrata in guerra, la magia popolare della mamanna, il barbiere, la mafia che si sostituisce allo stato e aiuta gli alleati nello sbarco, la resistenza quotidiana, le serenate e le serenate sconce. Una fotografia dell’Italia e della Sicilia raccontata partendo dalle vicende personali di un casellante, il protagonista, e di sua moglie alla disperata ricerca di un figlio. La scenografia, grazie a un vecchio risciò posto al centro per ricordare il treno, dà una sensazione di movimento, di trovarsi nel mezzo di un bel viaggio; sul lato sinistro, una sedia da barbiere ne rappresenta la bottega, dove Nino e un amico suonano la domenica per allietare i clienti; sulla destra del palco un semplice tavolo fa da testimone alle quotidiane vicende di casa, alle discussioni tra marito e moglie e agli incontri privati con la mamanna. La sensazione resa è quella di una vita vissuta con il sorriso sulle labbra anche quando la vita si fa più dura.
Il passaggio alla seconda parte è netto, un albero spoglio, autunnale, diventa protagonista inconsapevole della tragedia, della guerra, dello stupro, della morte, della pazzia, della metamorfosi e della rinascita. Il tema del viaggio rimane centrale ma è un viaggio triste, lento. Un viaggio che prosciuga, che mette di fronte ad esperienze troppo dolorose e che prosegue inesorabilmente verso la fine. L’atmosfera si fa cupa, i motivetti scanzonati che il protagonista suona insieme ai compagni si perdono in arie più melanconiche e la voce narrante diventa greve e preoccupata. La natura diventa matrigna, arriva la guerra, la morte del figlio ancora in grembo e tanto a lungo desiderato per mano di chi sembrava essere amico. Paradigmatica appare la figura del boss mafioso, che nella prima parte risultava più negativa e la sua sola presenza incuteva timore al protagonista. Al contrario ora nella seconda parte sembra essere diventato il buono, il giusto che risolve le mancanze di uno stato assente trovando e indicando al protagonista chi ha stuprato Minica e assassinato suo figlio. In realtà questo non si deve a una diversa interpretazione del personaggio, che si mantiene costante per tutto lo spettacolo, o a un tentativo di darne credito, è la variazione del mondo intorno a lui che, facendosi sempre più ingiusto e violento, offre giustificazione alla vendetta consumata da Nino. In ultimo la rinascita: Minica si trasforma in albero, la metamorfosi si compie e Nino salva dalle macerie di un treno colpito dalle bombe il figlio tanto atteso.
Pietro Perelli